Lettera al Mattino: Matera Capitale, segnale per il sud

CITAZIONENUOVAp
Egregio direttore,

ho letto lo stimolante intervento di Andrea Di Consoli dal titolo “Matera Capitale, segnale per il Sud” pubblicato sul Suo giornale del 15 gennaio, e vorrei condividere con lei e i Suoi lettori alcune considerazioni che mi auguro possano contribuire ad alimentare il dibattito e il confronto delle idee.

Di Consoli esordisce mostrando, e noi con lui, tutta la sua soddisfazione nel vedere la città dei Sassi “Capitale europea della cultura”. Ho vissuto in prima persona, dall’inizio di questa legislatura in particolar modo, gli sforzi di Governo e Parlamento per rendere questa manifestazione fonte durevole di opportunità per Matera e allo stesso tempo per dare respiro internazionale al patrimonio culturale materiale e immateriale della città e del Mezzogiorno. Abbiamo dato il massimo affinché si arrivasse con un programma e con un’offerta il più possibile adeguati a un appuntamento i cui tempi e modi erano stati decisi da altri prima di noi. Come ha affermato il Ministro Bonisoli nel suo primo intervento in Parlamento, “il vero obiettivo è avviare un ciclo positivo che può andare avanti 15-20 anni”, creando “un’offerta culturale che attiri le persone in un polo di attrazione del Sud Italia a livello mondiale”. Ora si parte con l’inaugurazione del 19 gennaio ed è importante interloquire con il punto di vista espresso da Andrea Di Consoli quando sostiene – semplifico i concetti espressi – che sì, va bene la kermesse culturale, ma senza “un apparato industriale forte” l’economia della città lucana e del Sud in generale sarà sempre ferma al palo.

Mi sento, su questo punto, di dissentire per due ordini di ragioni.

  1. Attualmente la Basilicata, stando allo spunto di partenza, vive e sopravvive grazie a quello che si può senza ombra di dubbio definire “un apparato industriale forte”, vale a dire l’industria petrolifera. Non mi pare che questo abbia prodotto un Pil formidabile, capacità imprenditoriale diffusa oppure occupazione nell’indotto tali da poter ritenere utile continuare su questa strada. E taccio in questa sede sull’impatto sociale e ambientale di questo modello.
  2. Non voglio arrivare alla ormai trita querelle se con la cultura si mangi o meno, né credo sia questo il nodo del discorso di Di Consoli: penso però, contrariamente a quanto da lui sostenuto, che ci sia la possibilità attraverso la cultura di costruire un nuovo modello economico. La cultura e insieme ad essa le leggi dell’ecologia, assumendo il punto di vista della natura e del paesaggio, possono delineare l’ossatura di un sistema economico e sociale diverso e sostenibile in tutti i sensi.

Qualche mese fa abbiamo presentato un lavoro commissionato dal MoVimento 5 Stelle al sociologo Domenico De Masi, la ricerca indipendente Cultura 2030, dalla quale emerge che la cultura rappresenta la “nuvola” che ingloba tutto il resto. Un cloud, si direbbe nel linguaggio informatico corrente, che custodisce il vecchio e il nuovo, le nostre abitudini consolidate e quelle mutate in virtù delle tecnologie. Un concetto ampio che per essere gestito, promosso e trasformato in opportunità di una economia nuova non si può trattare secondo schemi consolidati e ricorrendo a competenze analoghe a quelle di una qualunque attività imprenditoriale. Questo però, come emerge anche dalla ricerca che citavo pocanzi, non significa che la cultura non possa rappresentare una forma di economia, sviluppando un importante giro d’affari ed occupazione: la conciliabilità tra i due concetti, cultura e business, non è in discussione; quello che è in discussione è il modo di intendere i due termini, necessariamente adeguato ai tempi mutati e al “terreno di gioco”, il modello “imprenditoriale, sociale ed ecologico” in grado di tenerli insieme.

Un esempio concreto di ciò che intendo è il lavoro al quale in questi mesi, ma anche in questi anni, abbiamo lavorato: il distretto Grandi Bellezze a cui vogliamo dar vita intorno a Pompei, Ercolano e il Parco Nazionale del Vesuvio. Si è partiti nel 2013 con una legge che con il ricorso ai fondi europei si poneva l’obiettivo di migliorare e potenziare tutto quello che era da recuperare all’interno degli Scavi. Però, si è detto in quella legge, bisogna ragionare anche sul distretto che c’è intorno, inglobando tutti i comuni circostanti e le loro “opportunità” di cultura. Un approccio “ecosistemico” con un interessante potenziale economico, che ha portato la cosiddetta buffer zone di Pompei alla candidatura a sito del Patrimonio Unesco. Se e quando si ragiona di cluster culturali e turistici – in Italia tanti ce ne sono e tanti altri se ne potrebbero individuare – si intravedono più facilmente i prodromi di una industria leggera dal punto di vista dell’impatto ambientale, ma pesante quanto a possibili ricadute socio-culturali ed occupazionali. Ad oggi, nonostante non sia ancora realmente avviato, uno studio di Invitalia ha calcolato un impatto economico del Distretto Grandi Bellezze di Pompei pari a 2 miliardi di euro e 16.500 occupati a tempo pieno, anche con il livello attuale di utilizzo delle strutture ricettive, vale a dire il 50% del potenziale.

Come emerge ancora una volta dalla ricerca Cultura 2030, la presunta antitesi economia-cultura in realtà si supera facilmente mettendo a punto nuove abilità di gestione dei patrimoni culturali, capaci di aprire alle contaminazioni e alle tecnologie, alle nuove esperienze di fruizione. È in questa direzione che si sono concentrati fin da subito i nostri sforzi nel legiferare in Parlamento, nella consapevolezza che il freno peggiore a questo processo non è né la burocrazia né la inadeguatezza degli investimenti, ma la mancanza di visione. Se non riusciremo a mettere a fuoco, soprattutto in virtù dell’antica diffidenza verso chi non produce oggetti materiali, il progetto di una industria della cultura intesa nel senso più ampio, il Mezzogiorno d’Italia non avrà chance di trovare una strada nuova e innovativa per costruire una propria economia. La strada dell’industria produttiva tradizionale evocata da Andrea Di Consoli è stata già battuta e non può essere nuovamente tentata al Sud se non nel quadro di una sostanziale e radicale innovazione e nel contesto di un più ampio orizzonte, uno spin-off culturale “Italian style” con radici nell’innovazione da Silicon Valley dei tempi d’oro. Certo, per fare una nuova industria serve una nuova imprenditorialità, lontana anni luce da quella coloniale e di rapina sperimentata nei decenni passati, o da quella di basso cabotaggio legata agli interessi localistici e clientelari di piccoli politici locali. Attenzione però: non serve una generica cultura imprenditoriale, ma una specifica imprenditorialità culturale capace di cogliere le connessioni e le opportunità offerte dagli ecosistemi di riferimento, l’insieme delle infrastrutture materiali e immateriali, mobilità e interconnessioni che non mirano a distruggere e ricostruire progetti faraonici ma a rimodellare l’esistente. Uno dei nodi centrali di ciascun ecosistema è la scuola, l’università, che dev’essere ripensata e riorganizzata in funzione di questa visione, puntando sulle competenze chiave per il 2030: creatività, competenze digitali, comunicazione e resilienza. Anche su questo siamo al lavoro e disponibili a proseguire il confronto in questa ed altre sedi.

Luigi Gallo

Presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati

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